Una biografia
Nel 1861 aveva appena quindici anni, pertanto si sarà rammaricato di non aver preso parte in prima persona al processo di unificazione della penisola. Tito Pasqui, forlivese nato il 1° agosto 1846, rimediò ben presto a questa “lacuna” e, ventenne, indossava la camicia rossa dei fedeli di Garibaldi. Figlio di Gaetano, agronomo autodidatta e possidente che proprio in quegli anni stava facendo fortuna con una piantagione di luppolo e un'agenzia di strumenti agrari, e di Geltrude Silvagni, crebbe in una famiglia vicina alle promesse rivoluzionarie di Napoleone. Non è un caso se suo nonno Fabrizio Pasqui, classe 1771, proveniente verosimilmente da Città di Castello, è attestato, con la moglie Anna e prole, a Forlì dal 1797, anno in cui l'Imperatore fece ingresso in quella che sarebbe diventata la capitale del Dipartimento del Rubicone. Altri esponenti della famiglia presero parte all'esperienza della Repubblica Romana e alle battaglie del Risorgimento. Per fare un esempio: il cugino Domenico Pasqui (1827-1874), figlio di Giovanni e Paola Vitali, a ventidue anni, da giovane “berrettaio” qual era, s'immatricolò (n. 1493) nella Guardia Civica di Forlì per poi partecipare, distinguendosi con medaglie, alle Campagne del 1849 e del 1860-61 per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia. Paradigma di una borghesia familiare emergente, legata alla terra e alle scienze agrarie più innovative,
Pasqui fu educato fin da ragazzo allo studio paziente e all'amor patrio. Aveva tre sorelle: Ottavia, Claudia e Livia cui fu sempre molto legato. Non per nulla sollecitò l'amico Alessandro Fortis impetrando un aiuto “per risparmiare ad una mia cara sorella un acerbo dolore e un grave danno economico”. Infatti “Leopoldo Calderai2 – scriveva il 29 aprile 1882 – mio cognato, segretario capo al tribunale militare di Bologna, molto stimato da suoi superiori che due anni fa lo fecero nominare cavaliere: sano e robusto ancora, avendo appena 50 anni, sarà messo a riposo per far posto a giovani protetti...”. Se per una volta chiese un favore, per tutta la vita fu lui il tramite per numerosi forlivesi, latore di piccole e grandi richieste per sviluppare piccole e grandi imprese romagnole.
Era lui, come si direbbe oggi, “l'interfaccia” di Forlì e della Romagna con l'Europa, e quindi si fece carico degli interessi degli amici o di chi si faceva avanti per chiedere un aiuto, un sostegno durante le sue frequentazioni a Roma, Parigi, Londra e in altre grandi capitali. Questa fiducia, del resto, fu il frutto di anni di lavoro alacre. Compiuti gli studi classici a Forlì, nel 1866 si laureò poi in ingegneria civile e agronomia (si legge anche in matematica e architettura) a pieni voti, tanto da meritarsi la menzione onorevole nella Gazzetta Ufficiale del Regno. Nello stesso anno era presidente dell'associazione universitaria prima di buttarsi nel turbine delle guerre d'Indipendenza. In quel 1866, infatti, accorreva a combattere con Garibaldi in Trentino da caporale furiere dell'ottavo reggimento di volontari italiani. L'anno seguente vestì di nuovo la camicia rossa per battersi, con la Colonna Valzania, a Monterotondo e in quel di Mentana, sergente al comando dell'amico Achille Cantoni. Nel 1869 si trasferì a Torino per frequentare un corso speciale di perfezionamento presso la scuola degli ingegneri.
Tornato nella sua Forlì si occupò di agronomia, lavorando col padre alla fabbrica di birra familiare e sperimentando nuove colture. Rispose all’appello di volontario anche per la guerra franco-prussiana, partecipando al fianco di Garibaldi nella battaglia di Digione del 1870. Uno dei suoi primi incarichi pubblici è già segno di prestigio: fu chiamato a far parte della commissione direttiva dell’Esposizione agraria, industriale e di belle arti che si tenne a Forlì nel 1871, presieduta da Giovanni Guarini. A questo evento non si sottrasse il padre Gaetano che non mancò di esporre i suoi attrezzi agrari, il suo luppolo e la sua birra, né tantomeno il cugino Domenico, già citato, che qui svolgeva la mansione di “caffettiere”. Così, già a venticinque anni, Tito Pasqui in città era molto conosciuto. Tanto che l'anno successivo è citato tra i promotori della Banca Popolare Forlivese, istituto sorto per fornire credito alle classi sociali meno favorite dalla fortuna. Mentre la sua posizione politica, da repubblicana si spostava sempre più verso la parte moderata, si scopre un curriculum lunghissimo e multiforme: per tratteggiarne alcuni sommi capi si riporta quanto scritto su un giornale dell’epoca (“Riviera Romagnola”, del 13 aprile 1922): “Dotato di memoria prodigiosa e di pronta intuizione fu nominato, prima assistente presso la scuola d’Agraria dell’Università di Bologna, poi insegnante di Agraria, Estimo e Costruzioni nell’Istituto tecnico di Ravenna e nell’aprile del 1872 al R. Istituto tecnico di Forlì ove rimase fino al 1880 quale professore di Agraria, Estimo e Computisteria rurale. Per incarico del Ministero visitava alcune scuole della Baviera, dell’Austria, dell’Ungheria e nel 1873 ebbe l’alto onore di rappresentare il Governo italiano all’Esposizione agraria universale a Vienna e al Congresso internazionale di economia rurale e forestale. Negli anni successivi egli, sempre per incarico del Ministero come giurato speciale per la Meccanica agraria, partecipò ai lavori dei Concorsi agrari regionali di Ancona, Aquila, Ferrara, Parma, Reggio d’Emilia e Siena. Più tardi fu giurato ai Concorsi per Essiccatori di cereali a Milano e a Roma. Nell’agosto del 1877 era chiamato a Roma per esaminare, insieme con altri Professori d’Agraria ed Estimo degli Istituti tecnici d’Italia, i nuovi programmi di queste scienze”. A fine articolo, si leggerà che “la Romagna va a lui debitrice di una buona parte del meraviglioso progresso agrario verificatosi in questo ultimo ventennio”. Il professore forlivese prese parte a visite agrarie in Inghilterra e in Svizzera dove contribuì alla realizzazione del tunnel ferroviario del S. Gottardo. Nel 1878 fu in Francia: per incarico della Deputazione provinciale di Forlì, visitava l'Esposizione universale di Parigi.
Feconda può dirsi la sua attività di pubblicista e di conferenziere. Diede, infatti, impulso al Giornale agrario italiano di Bologna e agli Annali della Stazione agraria di Forlì che così divenne il più apprezzato periodico di economia rurale in Italia. Poco dopo la morte del padre, nel dicembre 1879, iniziò la sua carriera di conferenziere grazie a un suo intervento al comizio agrario di Ancona, che diede origine a una presa di coscienza da parte della viticultura italiana, vessata dall’Attila dei vigneti, la filossera, e da una scarsa capacità imprenditoriale. Se il padre Gaetano aveva puntato sul luppolo e sulla birra come bibita succedanea del vino, Tito non la vedeva affatto così. “L'Italia – disse in quella circostanza - più che la terra di Cerere esser deve la terra di Bacco, dall’estremo capo, dalla Sicilia fino alle Alpi. L’Italia può e deve conservare questa preziosa pianta cara e sacra a Bacco, ma deve saperla coltivar meglio di quel che ora non faccia. Addolora il vedere nelle statistiche ufficiali che nei vigneti italiani non si ottengono nemmeno i trenta Ettolitri di vino; mentre in Francia e altrove raggiungonsi 100 Ettolitri e più. Ciò accade perché non potiamo bene le nostre viti, mal sappiamo fecondarle, e le piantiamo troppo profonde, e soverchiamente vicine”. E ribadì il concetto: “L’Italia deve fornire l’umile vino da pasto come il più squisito vino di lusso a mezza Europa. Dai vini i più liquorosi al Bordeaux, che troviamo al letto dell’infermo o sul tavolo del convalescente, al Borgogna e allo Champagne che brilla fra il tintinnio de bicchieri e gli allegri brindisi; tutte le più elette specie di questa bevanda, che laetifìcat cor hominis come cantava re David, può l’Italia fornire”. Infatti, secondo il professore forlivese “precipua fonte di ricchezza all’Italia deve esser la viticultura. Indiscutibile vero affermava il Cesare, moderno, il primo Napoleone, osservando, che le finanze fondate su una buona agricoltura non si distruggono giammai”. Parole dette in tempi non sospetti, anzi, in cui potevano sembrare troppo azzardate, ora si leggono contemporanee. Per questa sua lungimiranza, nel 1886 a Roma fu scelto come Direttore della divisione agricoltura e idraulica agraria. Nel 1879 aveva vinto il concorso (il primo di una lunga serie) per Ispettore dell'Agricoltura e dell'Insegnamento agrario. Si dimostrò fin da subito il primo grande alfiere del nettare di Bacco del Belpaese: dal 1895, infatti, fu scelto come Delegato italiano per il regime di importazione dei vini italiani all'estero, specialmente in Austria-Ungheria. Animando dibattiti per tutelare e favorendo la nostra enologia, incoraggiò i produttori dello Stivale a rendere il vino un pezzo importante della nostra cultura, da conoscere, potenziare ed esportare. ll Ministero dell’Agricoltura gli commissionò studi diretti alle soluzioni dei vari problemi che concernevano l’applicazione dei motori a vento per elevare acque, l’essiccamento dei cereali per combattere la pellagra, la distillazione dell’alcool denaturato per i diversi usi industriali. A tale intento furono banditi concorsi internazionali a Cagliari, a Lecce, a Conegliano, a Milano e a Roma: tutti questi concorsi furono vinti da Tito Pasqui.
In Francia fu presente alle celebri esposizioni universali (oltre a quella del 1878, anche nel 1889 e nel 1900) per studiare i progressi della meccanica agraria come delegato della Provincia di Forlì prima, e del Regno d’Italia poi. Una bella foto di lui su una mongolfiera, accanto ad altri rappresentanti dei Paesi europei, è un ricordo significativo di quel 1900 a Parigi: e il forlivese, con un sorriso fiero protetto da un paio di baffi alla moda, sembra essere nel suo contesto ideale, per nulla a disagio in quel cesto che di lì a poco avrebbe spiccato il volo. Ogni argomento rappresentava una sfida appassionante: non per nulla si occupò di svariati studi, affidatigli dal Ministero dell’agricoltura su, per esempio, applicazioni dei motori a vento per elevare acque e l’essiccamento dei cereali per combattere la pellagra. S’interessò anche dell’uso della gomma nell’industria, frontiera allora misteriosa e inesplorata. Nel 1903, da Commissario per la Sardegna, fu promosso ad Ispettore generale dell’Agricoltura, delle Acque e Foreste e, con questo incarico, ebbe una calorosa accoglienza nell’ottobre del 1906 in Romania in occasione di un’esposizione universale. Là fu inviato dal Ministero per studiare le condizioni dell’Agricoltura e delle Industrie rurali a Bucarest. Altre trasferte lo videro in altre capitali europee, come Vienna e Londra. Pur avendo in agenda numerosi impegni a Roma, dove aveva studio in via delle Quattro Fontane, in Italia e in Europa, non si dimenticò mai della Romagna, né tantomeno di Forlì. Così nel 1908 il suo nome fa capolino tra i fondatori del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Ancora in Francia, nel 1909, inaugurò ad Amiens un Concorso di apparecchi per l’applicazione dei motori meccanici alla coltura delle terre. Divenne dunque Direttore generale dell’Agricoltura ed insieme Consigliere dell’Ordine al Merito del Lavoro e Presidente della Commissione per la bonifica dell’Agro romano. Nel 1910 fu Commissario per lo studio dei provvedimenti economici a vantaggio della Maremma Toscana. Andò in pensione nel 1911, con 42 anni di servizio cui sono da aggiungere i due anni di guerra. Ma continuò a lavorare, ricoprendo dapprima il ruolo di Presidente del Concorso internazionale di macchine ad essenza applicate alla Agricoltura nell’Esposizione internazionale di Torino. Nel 1913, poi, dirigeva a Parma i lavori e le accurate prove del grande Concorso internazionale di apparecchi di ogni tipo con motore meccanico per la lavorazione dei campi. Nel 1915 fu nominata la Commissione censuaria provinciale, a cui il Ministro delle Finanze prepose come Presidente Tito Pasqui. Anche in tarda età era un assiduo frequentatore della Biblioteca comunale intitolata a Saffi, ove sfogliava avidamente libri, leggeva, studiava per ore, scriveva e prendeva note con la sua consueta e metodica precisione da catalogo, da archivista. Uno studio infinito, quindi, per un uomo che non si accontentava mai; una mente fervida, creatrice, intrisa di gioioso positivismo e di sincera fede in Dio, nella Patria e nella Famiglia. Tra le sue copiose pubblicazioni sono da ricordare una relazione sulla coltura della barbabietola da zucchero, indagini sulla filossera, il prestigioso trattato “Ampelografia Romagnola” che contiene studi sui caratteri, sui pregi e sui difetti delle nostre viti comparate a quelle toscane, marchigiane e abruzzesi. Sulla scia di questo lavoro fu allestita a Forlì, nel 1876, una mostra di uve, di macchine ed apparecchi per la viticoltura e la vinificazione. Altre pubblicazioni di Tito Pasqui afferiscono alla Regia stazione agraria sperimentale di Forlì, diretta da lui e da Alessandro Pasqualini. L'orto sperimentale e la scuola d'agricoltura con annesso laboratorio avevano originariamente sede a Campostrino, nel quadrilatero tra le vie Girolamo Mercuriali, Oreste Regnoli, Giacomo della Torre e Girolamo Orsi. Su interessamento di Tito Pasqui, per l'istituto furono utilizzati i resti del teatro Santarelli, altro rimpianto forlivese, che qui sorgeva con i suoi 57 palchetti suddivisi in tre ordini oltre il loggione, realtà nata nel 1835 e ben presto atterrata. E poi a suo nome si trovano indagini sulle piante foraggere erbacee ed arboree, notizie sulle novità e sui progressi dell'agricoltura nel 1878-79 in varie regioni italiane, e relazioni sulle macchine rurali esposte ai concorsi di Ferrara e Reggio Emilia nel 1875 e nel 1876. Sua, inoltre, è la relazione completa di tutte le parti dell'Economia rurale delle Marche, degli Abruzzi e delle Puglie ed infine raccolse i testi delle sue conferenze o appunti sulla sua attività politica. Suoi interventi figurano su riviste anche internazionali dell'epoca. Non disprezzava l'approfondimento verso colture o vegetali “minori”, come il cappero, cui dedicò una monografia. Innumerevoli sono gli appuntamenti cui prese parte, la fitta corrispondenza con gli scienziati del tempo, articoli e contributi scritti e commentati. Di pari passo con gli studi e con gli interventi da fecondo pubblicista, avanzò anche nella vita politica. A Forlì fu consigliere comunale, assessore, consigliere provinciale, presidente della Società magistrale, presidente del consiglio provinciale, segretario del Consorzio agrario. Fu eletto deputato al Parlamento nel 1898. La candidatura di Pasqui, sostenuta da un comitato di elettori democratici, non era la voce di un partito ma l’espressione sincera del Paese, stanco di assistere alle combutte sterili dei politicanti. Una stravaganza, per Forlì, la stella politica di Pasqui: né repubblicano come un tempo, né socialista, seppe far emergere un movimento indipendente, un “partito dell'ordine” che mirava a risolvere problemi concreti.
Ottenne 1739 voti, contro 1210 di Turchi e i 247 di Balducci e fu così proclamato deputato quella stessa sera, senza ricorrere neppure al ballottaggio. Ne “Il Cittadino”, giornale della domenica del 3 aprile 1898, si legge di Pasqui che “non lusingava velleità alcuna d'intraprendere la carriera parlamentare. Egli (…) era salito, unicamente per la forza del suo ingegno alacre, del suo studio indefesso, della sua integrità specchiata, a posto molto alto e invidiabile; e, nondimeno, non ne aveva mai insuperbito, s'era conservato affabile, cortese con tutti, anche coi più umili, sollecito di fare a tutti, specialmente ai più bisognosi, il maggior bene che poteva, ardente sopra tutto di giovare alla sua nativa Forlì, non mai dimenticata”. Cosa che fece “senza secondo fine, sempre disinteressatamente”, infatti, per diventare deputato “doveva troncare anzi tempo la propria carriera d'impiegato”. Né repubblicano né socialista, seppe far emergere in Forlì un movimento indipendente, un “partito dell’ordine” che mirava a risolvere i problemi concreti: per fare un esempio riformò il catasto provinciale, facendo così diminuire le imposte erariali. Si avvicinò a posizioni monarchiche e vicine alle istanze dei cattolici, scelte che lo allontanarono dalla poltrona di sindaco della città che tanto amava.
Alla sua morte, avvenuta improvvisamente nella sua casa di corso Garibaldi 21 (il vecchio “Borgo Schiavonia” che proprio su iniziativa di Tito Pasqui fu intitolato all'eroe dei due mondi) il 7 luglio 1925 alle ore 22, la città si fermò. Ai suoi funerali, iniziati alle 18 del 9 luglio, si snodò un corteo dalla casa del defunto fino alla barriera Mazzini. Davanti c'era un plotone di vigili del fuoco in alta uniforme, poi gli alunni degli asili infantili, quindi il clero e la salma. Seguivano i parenti, gli amici intimi, i gonfaloni della Provincia di Forlì e del Comune, le bandiere delle associazioni patriottiche e dei reduci. Raggiunta la barriera Mazzini, il sindaco Corrado Panciatichi lesse l'orazione funebre, un omaggio al personaggio che tanto fece per la sua città, per la Romagna e per l'Italia. Quindi fu sepolto nel Cimitero monumentale nella tomba di famiglia, ove riposa tutt'ora. Nei numerosi necrologi si legge, a mo' di bignami, la sua storia e l'affetto che la città, allora aveva per lui. L'Istituto del Nastro Azzurro4, ricordava: “L'ardente volontario nelle guerre d'Indipendenza d'Italia, l'apostolo dell'ultima riscossa nazionale, trova, nel giorno della sua incomparabile scomparsa, il sincero rimpianto di tutti gli antichi e recenti fratelli d'armi e di spirito”. L'Istituto intendeva dare “omaggio alle Sue ardenti Virtù militari, d'intelligenza e di cuore, che in ogni atto della Sua vita operosa, in ogni delicata missione sociale e carica pubblica, rifulsero sempre di splendida luce fecondatrice di opere sagge sempre ispirate alla grandezza del popolo e della Nazione”.
La Società veterani e reduci delle patrie battaglie5, sezione garibaldini (di cui Tito Pasqui era stato presidente) scriveva, tra altre cose, che il defunto “Aveva fatto la Campagna di Guerra del 1866 e del 1867 sotto la guida di Giuseppe Garibaldi e fu sempre di immutati sentimenti italianissimi”. L'Associazione nazionale madri, vedove e famiglie dei caduti e dispersi in guerra, mutilati ed invalidi, volontari, tubercolotici, combattenti6 evidenziano l'”eminente figura di soldato e di concittadino”. In particolare, di Pasqui si ricorda “che primeggiò sui campi della redenzione Patria nel periodo della libertà e dell'indipendenza e che tenne in Roma i più alti Uffici all'Agricoltura per un grande periodo di anni. Gentiluomo e galantuomo si prodigò a dispensare aiuti ed a lenire dolori a chiunque battesse la sua porta”. La Giunta municipale di Forlì7 lo omaggia come “fervente garibaldino” che “partecipò, con l'impeto generoso dell'anima romagnola, alle Campagne del 1866-67 e a Mentana, spartano di Leonida, si batté valorosamente, e della Patria fu sempre l'ardente, fedele e devoto milite, e per la Patria sempre degnamente operò”. Inoltre, lo si indica quale “pioniere instancabile di ogni civile progresso” che “lascia dietro di sé il prezioso retaggio di una vita, tutta illuminata da un magnifico fervore di pensiero e di opere, tutta consacrata a un sommo ideale di bene”. Inoltre, conclude il ricordo della Giunta comunale “Alla sua Romagna, che fu il Suo costante Amore, diede con larga dovizia, il Suo ingegno e la Sua sapienza e a Lui si debbono il risveglio agricolo, l'incremento della produzione terriera, la diffusione della vera tecnica agraria”. Nella sua vita ebbe copiosi riconoscimenti: era Grand’Ufficiale dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia, Grande Ufficiale della Stella di Romania e Cavaliere Ufficiale della Legione d’Onore e del Merito Agrario in Francia.
L’11 agosto 1925, il direttore della Biblioteca comunale di Forlì ricevette da Ottavia Pasqui, a poco più di un mese dalla morte di Tito, una ricca e importante donazione cartacea. Egli, infatti, volle lasciare alla sua città una cospicua raccolta di centinaia di documenti (libri, monografie, opuscoli, miscellanee, ritagli di giornali, carteggi, ricordi di viaggio…) che, anche per rispetto del donatore, meriterebbero una migliore fruizione. Il materiale, catalogato e raccolto in decenni di premurosa e ingegnosa attività, è per lo più di carattere agrario. Ma non solo: nel Fondo Pasqui sono compresi un po’ tutti gli interessi del forlivese, dalla storia della sua città a progetti per il suo sviluppo, da interessanti planimetrie e ricordi delle Esposizioni universali a lettere, taccuini, riviste. Un patrimonio ancora nascosto; documenti rari che il donatore volle condividere coi suoi concittadini del presente e del futuro ma che, per ora, rimangono noti solo agli addetti ai lavori. Diede altro di sé alla Città: al Museo del Risorgimento lasciò la camicia rossa che aveva indossato a Mentana, il berretto dell'uniforme, alcune preziose decorazioni (tra cui la croce di Cavaliere della Corona d'Italia e i fregi conseguiti in Romania), nonché oggetti come le posate che si portava in battaglia. Forlì ha dedicato a Tito Pasqui una piccola via periferica, tra Ca' Ossi e San Martino in Strada. Una fermata dell'autobus “5”, inoltre, commemora il suo nome in via Quarantola. Sperando di smentire presto l'adagio che non vuole nessuno profeta a casa propria, il capoluogo romagnolo potrebbe ricordare il multiforme ingegno di Tito Pasqui e la sua straordinaria figura di studioso appassionato, convinto assertore dell'Italia unita e difensore delle sue eccellenze: l'agricoltura, l'enologia, la creatività in ogni campo, anche nei campi coltivati e nei frutteti che distinguono il paesaggio dell'amata Romagna.
Testo tratto dal saggio di Umberto Pasqui pubblicato su "Achille Cantoni e gli altri" (CartaCanta Editore, 2011)
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