Quando Massimo d’Azeglio scrisse che la Romagna era la regione d’Italia dove “la pianta uomo nasce e si sviluppa più completa”, non stava indulgendosi in un’iperbole letteraria. A distanza di decenni, quella flatterie trovava piena conferma nella Forlì dell’Ottocento, città animata da una gioventù intelligente, sensibile alla vita pubblica, elegante nei modi e disinteressata nel sentire. In quel contesto — vivace, colto, quasi naturalmente politico — si muovono figure come Luigi Carlo Farini, Francesco Laderchi, i Rasponi, Raffaele Pasi, e soprattutto Alessandro Fortis, detto da tutti Sandrino. Ma accanto a lui, con una presenza più silenziosa e non meno significativa, si staglia Tito Pasqui, simbolo di quella eleganza forlivese che non era solo estetica, ma morale e civile.
Il testo lo dice senza enfasi, ma con chiarezza: ogni città di Romagna aveva i suoi giovani degni della lode d’Azeglio, e Forlì annoverava fra i primi Fortis, Sauli, Tito Pasqui, Tonino Fratti, i conti Gaddi. Pasqui è citato in un elenco che non è mai casuale: è una galleria di stili umani, prima ancora che di nomi politici. Essere parte di quella cerchia significava incarnare una precisa idea di urbanità romagnola: presenza elegante, partecipazione ai teatri, ai caffè, ai comizi; gusto per la parola ben detta e per la misura. Pasqui apparteneva a quel mondo in cui la politica era ancora gesto pubblico e forma, non mera tecnica.
Forlì emerge dal testo come una città dove l’eleganza era diffusa: non solo nei salotti, ma nei caffè, nelle passeggiate, nelle logge, nei pubblici spettacoli. Fortis ne diventa l’arbiter elegantiae, il deputato naturale alle cerimonie, l’uomo che incanta per voce, sorriso, portamento. Ma proprio questo ruolo illumina, per contrasto e vicinanza, figure come Tito Pasqui: meno teatrali, forse, ma pienamente inserite in quel tessuto di relazioni civili raffinate.
Il lungo ritratto che il Periodico citato fa di Fortis è impietoso e affettuoso insieme. Oratore incantevole, dotato di una parola sonora e seducente, mancava però dell’energia del volere. Fu dominato più che dominatore, favorito dalla sua stessa grazia, e infine travolto dalle necessità dure del governo. Eppure, proprio accanto a uomini così, la presenza di Tito Pasqui acquista valore: non come alternativa, ma come testimonianza di un modo diverso di essere romagnoli colti e civili, capaci di partecipare senza bruciarsi nella ribalta.
Il testo insiste su un dato prezioso: Forlì non produceva solo uomini politici, ma tipi umani completi. L’eleganza non era ornamento, ma disposizione naturale. Tito Pasqui rappresenta questa qualità: un nome che non esplode nella cronaca nazionale, ma che resta essenziale per comprendere il clima morale in cui si formarono Fortis, Fratti, Sauli. In quella Forlì di fine Ottocento, essere eleganti significava saper stare nella storia senza urlare, partecipare senza cedere all’opportunismo, e coltivare la forma come rispetto per gli altri. La parabola di Fortis — culminata nel suo “canto del cigno” parlamentare e spenta dalla malattia — illumina per contrasto la solidità discreta di figure come Tito Pasqui. Uomini che non lasciarono grandi riforme, forse, ma contribuirono a creare un ambiente civile alto, in cui la politica poteva ancora essere conversazione, gesto, presenza.

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