Eppure, prima di essere “beni museali”, erano strumenti minimi di sopravvivenza. Cucchiaio e forchetta lunghi 22 centimetri portati in guerra da un volontario garibaldino appena ventenne. Oggetti da tasca o da tascapane, non certo da mensa borghese. È facile immaginare quei due pezzi di metallo passare di mano in mano, sciacquati in fretta in un fosso, battuti contro una gavetta, usati per un pasto scarno consumato all’aperto, tra marce, attese e polvere. Non sono cimeli celebrativi: sono residui concreti di una vita vissuta nel Risorgimento non come idea astratta, ma come esperienza fisica, fatta di fame, freddo, disciplina improvvisata.
Tito Pasqui nasce a Forlì nel 1846, nel cuore di una Romagna attraversata da fermenti repubblicani e mazziniani. Ma qui la biografia può restare sullo sfondo. Ciò che conta è il gesto: a vent’anni si arruola volontario nella terza guerra d’indipendenza del 1866, nell’8º Reggimento del Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi. L’anno dopo è a Mentana, sergente, furiere capo al fianco di Achille Cantoni, in quella battaglia amara che segna uno dei momenti più dolorosi del sogno garibaldino.
Quelle posate accompagnano questa stagione. Non raccontano strategie né proclami, ma l’intimità della guerra: il bisogno quotidiano di mangiare per continuare. In questo senso sono oggetti profondamente risorgimentali. Il Risorgimento non fu solo congressi, bandiere e statue; fu anche un esercito irregolare che si nutriva come poteva, uomini che portavano con sé pochi effetti personali, spesso per tutta la campagna. Un cucchiaio e una forchetta diventano allora simboli di una militanza concreta, povera, ostinata. Dopo le armi, Pasqui tornerà agli studi, alla scienza agraria, alla politica, fino a diventare deputato e alto funzionario dello Stato unitario. La sua parabola – da volontario repubblicano vicino ad Aurelio Saffi a figura progressivamente più moderata e monarchica – è emblematica di un’intera generazione. Ma proprio per questo le posate contano: appartengono al tempo in cui nulla era ancora definito, quando l’Italia non era un fatto compiuto ma una scommessa rischiosa.
Si attende dunque di scoprire la sorte di queste posate. La loro perdita rappresenterebbe una ferita alla microstoria, a quella trama di oggetti minuti che rendono il passato tangibile. Un documento scritto può essere ricopiato, un discorso può essere citato; un cucchiaio no. Se è perduto, lo è per sempre, e con lui se ne va un frammento silenzioso di esperienza. Resta la fotografia, probabilmente non resta il tenero astuccio-busta con la scritta "Posate mie alla guerra" di pugno di Tito Pasqui, resta la descrizione d’inventario, resta il dubbio. Forse riemergeranno, ripulite dal fango, magari irriconoscibili ma ancora lì. Forse no. In ogni caso, quelle posate continuano a interrogare: su come conserviamo la memoria, su cosa consideriamo davvero “importante”, su quanto i secoli passati vivano ancora non solo nei grandi nomi, ma negli oggetti umili che hanno attraversato la storia insieme agli uomini.

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