L’ampelografia è, in fondo, questo: l’arte (e la scienza) di riconoscere le viti attraverso i loro segni visibili. Foglie, tralci, grappoli, acini: ogni dettaglio diventa una parola di un linguaggio comune, condiviso dagli studiosi. Nell'Ottocento, l’ampelografia si struttura come disciplina autonoma. Non basta più chiamare una vite con il nome che le dà il contadino del luogo: serve una descrizione accurata, replicabile, confrontabile. È in questo contesto che Pasqui si inserisce con naturalezza, contribuendo a uno dei primi tentativi sistematici di studio dei vitigni romagnoli.
Tra i vitigni che attirano l’attenzione di Tito Pasqui c’è l’Albana rossa, citata e descritta nei Saggi ampelografici ed analitici intorno a dieci vitigni romagnoli (1875), scritti insieme ad Alessandro Pasqualini. Già il nome incuriosisce: Albana, ma rossa. Un’apparente contraddizione che racconta bene la complessità della viticoltura storica, dove le famiglie di vitigni si articolano in varianti, biotipi, adattamenti locali. Pasqui non si limita a registrare il nome: osserva la pianta, ne descrive la morfologia, ne analizza le caratteristiche produttive. Foglia, grappolo, acino: ogni elemento viene passato al vaglio con uno sguardo che oggi definiremmo “scientifico”, ma che allora era ancora fortemente legato all’esperienza diretta. L’Albana rossa diventa così non solo una vite coltivata, ma un oggetto di conoscenza, degno di essere fissato sulla carta per non perdersi nella confusione dei sinonimi e delle tradizioni orali. Potrebbe sembrare un esercizio antiquario. Non lo è. Gli studi ampelografici ottocenteschi, come quelli di Pasqui, sono oggi una miniera di informazioni per chi si occupa di biodiversità viticola, recupero dei vitigni storici, identità territoriale.
In un’epoca in cui il vino rischia l’omologazione varietale, l’ampelografia — oggi affiancata dalla genetica — torna a essere uno strumento fondamentale. Senza quelle descrizioni minuziose, molte varietà locali sarebbero scomparse senza lasciare traccia. L’Albana rossa, citata da Pasqui, è uno di quei nomi che ci ricordano quanto il patrimonio viticolo italiano sia stato (e sia ancora) stratificato, complesso, vivo. Rileggere Tito Pasqui oggi significa riconoscere il valore di un approccio paziente e rigoroso, ma mai sterile. Il suo lavoro non nasce per celebrare il passato, bensì per costruire strumenti utili al presente. È questo che rende i suoi scritti ancora attuali: la convinzione che conoscere una vite significhi anche comprenderne il territorio, la storia e le potenzialità. In fondo, l’ampelografia è proprio questo: un ponte tra scienza e cultura, tra osservazione e racconto. E Tito Pasqui, con la sua Albana rossa e il suo sguardo attento sulle vigne di Romagna, ne è stato uno dei costruttori più discreti ma più solidi.

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