L'aratro e la spada: la lezione civile di Tito Pasqui

«La spada, il moschetto, il cannone, accrescono il territorio di una Nazione e ne cacciano gli invasori; ma con quelle rie bocche di spavento e di morte si ammontano cadaveri, si spargono lacrime, lutti, fame e sangue, e si seminano i germi di guerre future. Con l’aratro invece si conquistano immense miniere di grano, di carne, di tessuti, di olio, di vino, non ancora sfruttate, e, coi lavori profondi del suolo, si conquistano inesplorate e spesso feraci regioni, aumentando in profondità il territorio produttivo della Nazione.»

(Tito Pasqui, Relazione sulle Macchine e strumenti al Concorso Regionale in Reggio Emilia del 1876, Roma, Eredi Botta, 1877).

Quando Tito Pasqui contrappone «la spada, il moschetto, il cannone» all’aratro, non compie un semplice esercizio retorico. Le sue parole, pronunciate in un contesto tecnico – una relazione sulle macchine agricole – assumono il tono di un giudizio storico e morale: esistono due modi di conquistare il territorio, uno violento e distruttivo, l’altro produttivo e pacificatore.

Tito Pasqui non parla per astrazione. Egli è figlio di Gaetano Pasqui, pioniere della meccanica agraria italiana, inventore e perfezionatore di aratri polivomeri e di numerosi strumenti per la lavorazione profonda del suolo. Ma mentre il padre incarna soprattutto l’opera dell’inventore e dell’imprenditore, Tito è la voce che interpreta e universalizza quel lavoro, elevandolo a principio di civiltà. Nella sua riflessione, le armi “accrescono” il territorio solo in apparenza. Esse allargano i confini, ma lo fanno riempiendo la terra di cadaveri e seminando «i germi di guerre future». È un’accusa netta, priva di ambiguità: la conquista militare è sterile, perché genera altra violenza. L’aratro, al contrario, non sottrae ma moltiplica. Con esso si conquistano «immense miniere di grano, di carne, di tessuti, di olio, di vino»: una ricchezza che non nasce dalla distruzione, ma dalla trasformazione intelligente della natura.

Qui il pensiero di Tito Pasqui si avvicina sorprendentemente alla tradizione biblica. Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «le spade saranno trasformate in aratri» (Is 2,4): non solo la fine della guerra, ma l’inizio di un ordine nuovo fondato sul lavoro della terra. Tito traduce questa visione in linguaggio moderno, tecnico, nazionale: la vera espansione di una nazione è quella che avviene “in profondità”, quando il suolo viene lavorato, bonificato, reso fertile. Gli aratri Pasqui, in particolare il polivomero, diventano così simboli concreti di questa filosofia. Ogni vomere che incide il terreno non apre una ferita, ma un solco fecondo; ogni lavorazione profonda non distrugge, ma rivela potenzialità nascoste. Dove il cannone lascia rovine, l’aratro lascia campi; dove la guerra produce fame, l’agricoltura produce pane. È significativo che questa visione venga formulata da un ingegnere. Tito Pasqui dimostra che la tecnica non è neutra: può servire la morte o la vita. La meccanizzazione agricola, se orientata al bene comune, diventa strumento di pace duratura, perché rende una nazione meno dipendente dalla conquista e più sicura nella propria autosufficienza.

In definitiva, Tito Pasqui non celebra semplicemente l’aratro contro la spada: egli propone un criterio di grandezza nazionale. Grande non è il popolo che domina con le armi, ma quello che sa nutrire se stesso e gli altri. In questa lezione, nata dal solco tracciato dal padre Gaetano ma elevata a parola pubblica dal figlio, l’agricoltura diventa atto morale, e il lavoro della terra una forma alta di politica e di pace.

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