L’elezione di Tito Pasqui alla Camera dei deputati tra il 1897 e il 1898 costituisce un caso singolare nel panorama politico di Forlì e della Romagna di fine Ottocento. In un’area fortemente caratterizzata dalla presenza socialista e repubblicana, Pasqui emerse come candidato moderato costituzionale, monarchico e conservatore, estraneo alle grandi organizzazioni di partito. Il suo consenso non nacque da una macchina politica strutturata, ma dal prestigio personale costruito negli anni attraverso l’attività scientifica, amministrativa e pubblica, secondo un modello di notabilato civile che, per impostazione e temperamento, richiamava figure come Alessandro Fortis, di cui aveva condiviso in gioventù anche alcune posizioni repubblicane poi superate.
Il profilo con cui Pasqui si presentò agli elettori era quello di un tecnico e di un uomo di Stato più che di un politico di professione. "Nato a Forlì il 1° agosto 1846, laureato in giurisprudenza (così, stranamente, si legge nel sito della Camera dei Deputati), insegnante di scuole superiori e ingegnere", all’epoca della candidatura ricopriva l’incarico di capo divisione al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Dopo l’annullamento dell’elezione di Amilcare Cipriani e una fase di instabilità che aveva visto più volte riconvocati i comizi elettorali, i moderati indicarono in Pasqui il candidato capace di riportare il collegio a una rappresentanza “normale”, sottraendolo alle contrapposizioni ideologiche esasperate che avevano segnato i mesi precedenti.
La campagna elettorale del 1898 fu particolarmente intensa. Pasqui percorse l’intero collegio, incontrò elettori, associazioni e comitati, e concluse la propaganda con un affollato discorso al teatro comunale di Forlì il 25 marzo, accolto con entusiasmo dai sostenitori e con vivaci contestazioni dagli avversari. La sua candidatura, sostenuta da un comitato di elettori democratici, venne presentata come espressione diretta del paese più che come voce di partito: un uomo “nato dal popolo”, che ne conosceva bisogni e aspirazioni e che non aveva mai negato il proprio aiuto quando richiesto. Pasqui stesso rivendicava di non fare politica in senso professionale, ma di mettere a disposizione dello Stato e del territorio competenze maturate nello studio e nell’esperienza amministrativa.
Il programma era volutamente concreto: cura pratica degli interessi del collegio, attenzione alla crisi del sistema liberale, rifiuto di nuove imposizioni fiscali e impegno nello studio di una riforma tributaria che consentisse, nel tempo, una riduzione delle tasse esistenti. In politica estera sosteneva che l’Italia dovesse occupare un posto di rilievo tra le grandi nazioni, ma respingeva le accuse di “africanismo”, ricordando di aver rifiutato incarichi di studio sulla colonizzazione per coerenza con l’idea che l’onore nazionale si difendesse rafforzando il Paese all’interno, non espandendosi all’esterno.
Il 27 marzo 1898 Pasqui ottenne una vittoria netta, con 1739 voti contro i 1210 del repubblicano Turchi e i 247 del socialista Balducci, evitando persino il ballottaggio. La proclamazione fu accolta da un entusiasmo diffuso, con manifestazioni spontanee, visite, applausi e celebrazioni che proseguirono fino a tarda sera. Numerosi giornali, anche fuori dalla Romagna, sottolinearono il significato politico del risultato, leggendo nell’elezione di Pasqui la fine di una fase anomala del collegio forlivese e il segno di una mobilitazione elettorale più ampia e civile. Non mancò chi evidenziò come, accanto ai fattori politici, avesse inciso anche l’elemento identitario e municipale: Pasqui era forlivese, e in un’epoca di forte campanilismo questo non era indifferente.
Nonostante il largo consenso e il riconoscimento pubblico, l’elezione fu contestata e sottoposta alla verifica dei poteri nella XX legislatura del Regno d’Italia. Il dibattito parlamentare mostrò come il nodo non fosse politico, ma istituzionale. Pasqui ricopriva già incarichi pubblici di rilievo e non poteva cumulare carica su carica; il mandato parlamentare, peraltro non retribuito, avrebbe comportato l’abbandono di funzioni tecniche e amministrative che lo Stato riteneva strategiche. Al termine della discussione, la Camera deliberò l’annullamento dell’elezione, confermando una linea rigorosa in materia di incompatibilità.
L’episodio non incrinò il prestigio di Tito Pasqui, che continuò a esercitare un ruolo di primo piano nella vita pubblica italiana al di fuori del Parlamento. La sua mancata esperienza parlamentare resta tuttavia significativa: testimonia l’esistenza, anche nella Romagna politicamente più radicale, di uno spazio per una rappresentanza moderata fondata sull’autorevolezza personale, sulla competenza e su una concezione dello Stato come strumento di progresso civile e tecnico più che come campo di militanza ideologica.

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