La sua passione per l’agronomia non fu mai semplice interesse tecnico. Per Pasqui la terra era un organismo vivo, da comprendere, migliorare, rispettare attraverso il sapere. E il sapere, per lui, aveva un luogo preciso: la Biblioteca Comunale di Forlì, che frequentava con assiduità quasi rituale. Tra quelle mura trascorreva intere giornate, studiando trattati italiani e stranieri, consultando riviste specialistiche, prendendo appunti, scrivendo, correggendo. La biblioteca non era solo un archivio di libri, ma una finestra aperta sul mondo moderno. Fu lì che maturò una decisione destinata a lasciare un segno duraturo: donare alla città tutto il materiale raccolto nel corso della sua vita. Nacque così il Fondo Tito Pasqui, oggi conservato presso la Biblioteca “Aurelio Saffi”, una raccolta imponente di 57 faldoni che restituisce, come pochi altri archivi personali, il ritratto intellettuale e umano di un uomo del suo tempo.
Sfogliando quei documenti si entra nello studio di Pasqui. Manoscritti, memorie di viaggio, lettere, relazioni sulle Esposizioni, libri acquistati durante i suoi spostamenti, articoli di giornale che parlano di lui e che egli stesso conservava con cura. Tutto è ordinato, classificato, annotato. Il metodo di lavoro è rigoroso, quasi ossessivo, soprattutto nei taccuini di viaggio, dove ogni osservazione diventa materia di studio: una nuova macchina agricola vista a un’esposizione, una tecnica colturale sperimentata altrove, un dettaglio architettonico o organizzativo degno di nota. Accanto ai testi più “alti” convivono oggetti umili ma eloquenti: biglietti da visita, telegrammi, cartoline postali, ricevute di alberghi, planimetrie di esposizioni, persino carte menù. Sono tracce di una vita in movimento, di un uomo che viaggia per capire, confrontare, imparare. Ogni spostamento è un’occasione per osservare il moderno in azione.
Le Esposizioni di fine Ottocento e dei primi del Novecento rappresentano per Pasqui una rivelazione. In quei grandi spazi dedicati all’innovazione, tra macchine a vapore, strumenti agrari, invenzioni meccaniche e modelli di progresso industriale, egli riconosce il futuro. Ma non un futuro astratto: un futuro da adattare alla realtà romagnola, alla sua terra, ai suoi vigneti e ai suoi campi.
Il moderno, per Pasqui, non è mai rottura violenta con la tradizione. È piuttosto dialogo, integrazione, miglioramento. Questo atteggiamento emerge chiaramente anche nella sua attività politica, documentata da un ricco carteggio. Inserito nella compagine liberale locale, Pasqui vede nella politica uno strumento per favorire il progresso agricolo e civile. Le lettere testimoniano rapporti con numerosi protagonisti del tempo, tra cui Alessandro Fortis, con il quale intrattiene uno scambio di idee libero e intenso. Eppure, nonostante i viaggi, i contatti, le aperture internazionali, Pasqui rimane profondamente legato alla sua Forlì e alla Romagna. Ovunque vada, il pensiero torna sempre lì: a come introdurre nuove tecniche, a come incentivare la produzione, a come migliorare le condizioni di chi lavora la terra. Nei suoi scritti ritorna costante l’idea che il progresso agricolo sia la chiave per la crescita economica e morale di un’intera comunità. Negli ultimi anni della sua vita, Pasqui assiste ai primi risultati concreti di quell’impegno lungo e paziente. I primi vent’anni del Novecento segnano per la Romagna un periodo di notevole progresso agrario, di cui egli è stato uno degli artefici più lucidi e instancabili. Alla sua morte, nel 1925, la città lo ricorda con manifesti commemorativi, segno di un riconoscimento che va oltre il singolo uomo.
Oggi, rileggendo le sue carte, Tito Pasqui appare come una figura di confine: radicata nella terra romagnola ma con lo sguardo rivolto al futuro; fedele alla tradizione ma affascinata dal moderno; uomo di studio e d’azione insieme. Un testimone consapevole di un’epoca di trasformazioni, che seppe ascoltare il rumore delle macchine senza dimenticare il silenzio dei campi.

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