Tito Pasqui, la Calabria, le farfalle

Nel 1907, sulle pagine de Il Naturalista Siciliano, il Conte Emilio Turati firma un articolo destinato a far discutere: "Nuove forme di Lepidotteri". E ringrazia Tito Pasqui specialmente per studi e approfondimenti sulla Calabria e le sue foreste. È un testo sorprendentemente moderno, insieme ironico e severo, che prende di petto una tendenza già allora dilagante: la frammentazione eccessiva delle specie in una miriade di nomi. Turati osserva con occhio critico il “frazionismo” tassonomico del suo tempo. Non bastano più specie e varietà: proliferano sottospecie, aberrazioni, generazioni, mutazioni occasionali — persino i casi patologici — ognuno battezzato con zelo da una folla di autori e “collezionisti di giornali e rivistucole”. Il tono è vivace, ma la sostanza è rigorosa: stiamo facendo scienza o stiamo collezionando nomi?

La domanda è netta. Questo moltiplicarsi di denominazioni è segno di progresso, di risveglio degli studi, oppure è decadenza, figlia dell’ambizione personale o del commercio che alimenta la passione dei dilettanti? Turati non risparmia frecciate: richiama persino il termine “raccoglioni” — reso celebre dal grande geologo Antonio Stoppani — per descrivere una certa deriva collezionistica. Eppure, Turati non è un iconoclasta. Non propone di fermare la ricerca, ma di governarla. La sua posizione è equilibrata: contenere il movimento “nei giusti limiti”, ignorare i nomi imposti con leggerezza, e accogliere invece quelle mutazioni fondate, legate a differenze geografiche o generazionali, o le forme aberrative regolarmente ricorrenti.

La forza dell’articolo non sta solo nella critica, ma nel programma scientifico che la sostiene. Turati investe nel lavoro sul campo, affida esplorazioni mirate a raccoglitori esperti e coordina le ricerche con metodo. Qui emerge una pagina che merita di essere riportata integralmente, perché racconta una scienza fatta di reti, istituzioni e riconoscenza:

Quest'anno ho dato incarico al sig. Geo. C. Kruger di esplorare la Calabria, e specialmente i monti ed i boschi della Sila, appoggiandolo presso le autorità forestali con speciali lettere gentilmente fornitemi dal R. Ministero dell’Agricoltura e per esso al Comm. Tito Pasqui direttore generale della partita al quale rendo vive grazie.

Il ringraziamento a Tito Pasqui non è una formalità: testimonia come la ricerca naturalistica, per essere solida, richieda collaborazione istituzionale e sostegno logistico. Turati affianca a questa missione calabrese un’altra esplorazione strategica: le alte valli della Liguria occidentale e il colle di Tenda, affidate al dottor Gieseking. L’obiettivo è chiaro: raccogliere materiale copioso e affidabile, da studiare con calma, per compiere “un nuovo e grande passo” nella conoscenza dei Lepidotteri italiani.

A più di un secolo di distanza, il messaggio di Turati suona familiare. In un’epoca di dati abbondanti e classificazioni sempre più fini, la sua voce invita alla prudenza critica: nominare è necessario, ma capire lo è di più. 

Tito Pasqui e la fillossera in Liguria

Quando, nella primavera del 1881, i vigneti terrazzati di Portomaurizio in Liguria vennero messi a nudo zolla dopo zolla per combattere la fillossera, tra gli uomini chiamati a decidere come salvare (o sacrificare) la vite ce n’era uno che, pur giovane, godeva già di grande considerazione scientifica: Tito Pasqui, agronomo di Forlì, ispettore dell’agricoltura, studioso della fillossera - un insetto pernicioso e infestante, capace di devastare vigneti - da un paio d’anni e già noto negli ambienti tecnici ministeriali.

Il suo nome compare quasi in punta di piedi nelle Relazioni ufficiali pubblicate negli Annali di agricoltura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (numero 35, 1881)Ma basta leggere con attenzione per capire che il suo contributo fu tutt’altro che marginale. In quei vigneti liguri, difficili e scoscesi, Pasqui non fu solo un consulente: fu una mente lucida, capace di leggere il terreno, le radici e l’insetto come un unico sistema.

Siamo nel marzo del 1881. I lavori di scasso ed estirpamento nei centri fillosserati del comune di Portomaurizio iniziano sotto la direzione del delegato fillosserico A. F. Spigno, dopo il passaggio di consegne dal collega Cittolini. Il cuore dell’intervento è il vigneto di Villa Durazzo, un vero rompicapo agronomico: 21 ripiani terrazzati, sostenuti da muri a secco alti anche oltre tre metri, 15 ripiani infetti, 6 in zona di sicurezza, un sistema radicale delle viti eccezionalmente sviluppato, con radici che si spingono fino a 6 metri in orizzontale e 4 metri in profondità.

Questa straordinaria vitalità radicale, se da un lato testimonia la forza della viticoltura ligure, dall’altro diventa un incubo operativo. Gli scassi procedono lentamente, i tempi si allungano, i calcoli iniziali saltano. La fillossera, intanto, non molla. L’8 aprile arriva la brutta sorpresa: su alcune radici compaiono rigonfiamenti con fillossere vive e uova appena deposte, segno inequivocabile che l’insetto ha resistito ai trattamenti precedenti. Si sospendono i lavori e si procede con iniezioni di solfuro di carbonio: 140 grammi per metro quadrato, più 20 grammi per ceppo.

Eppure, in certi casi, l’effetto è quasi nullo. Il motivo? Non l’inefficacia del prodotto, ma – come verrà chiarito con grande lucidità – la natura del terreno. Qui emerge una delle intuizioni più moderne dell’intera relazione: la fillossera non è solo un problema biologico, ma fisico e strutturale. Nei ripiani più inclinati, composti da scaglie marnose e pochissima terra, il suolo è così sciolto che i vapori del solfuro sfuggono rapidamente nei meati sotterranei, disperdendosi nell’aria prima di colpire l’insetto. Lo stesso accade in prossimità dei muri a secco, che diventano vere e proprie vie di fuga per il gas.

È in questo contesto che entra in scena Tito Pasqui, presente sul posto in quei giorni come ispettore dell’agricoltura. Pasqui suggerisce una strada diversa, più drastica ma anche più coerente con la realtà del terreno: niente iniezioni preventive, ma estirpamento completo e rigoroso di tutte le radici, fino all’ultimo capillare. Non solo: le radici estirpate vengono irrorate con petrolio e bruciate, per garantire la distruzione totale di ogni possibile residuo di fillossera. È una scelta netta, quasi chirurgica, che mostra quanto Pasqui avesse chiaro un principio fondamentale: contro un insetto che vive nascosto, profondo e lontano dal ceppo, non bastano soluzioni di superficie.

Questa impostazione, severa ma efficace, anticipa un approccio moderno alla lotta fitosanitaria: osservazione puntuale, adattamento delle tecniche al contesto, rifiuto delle ricette universali.

I dati finali parlano chiaro: 390 viti estirpate a Villa Durazzo (103 deperienti, 12 secche, 275 sane), 1.138 m² di terreno scassato. Nella zona di sicurezza Littardi: 173 viti estirpate, su 279 m².

Nessun nuovo rinvenimento di fillossera.

Un successo tecnico, ottenuto con fatica, precisione e una notevole capacità di lettura del territorio. Nel 1881 Tito Pasqui è ancora un giovane agronomo, ma il suo nome circola già con rispetto negli ambienti scientifici. I suoi studi sulla fillossera, avviati da almeno un paio d’anni, lo hanno reso una figura di riferimento, capace di coniugare rigore ingegneristico, sensibilità agronomica e pragmatismo operativo. A Portomaurizio lascia un segno profondo: un metodo, una visione, un modo di affrontare la crisi fillosserica non come una calamità cieca, ma come un problema da comprendere fino in fondo, zolla dopo zolla, radice dopo radice. In quelle vigne scavate fino a quattro metri di profondità, tra muri a secco e marne friabili, si intravede già il profilo di un tecnico destinato a lasciare traccia nella storia dell’agricoltura italiana. E forse è proprio lì, tra il fumo delle radici bruciate e l’odore acre del petrolio, che si conferma il Pasqui che verrà.

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