Appunti sulla gomma

Tito Pasqui e la gomma: uno sguardo romagnolo sulla Malesia tra scienza, interessi commerciali e industria. Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, quando l’Italia faticava a ridefinire il proprio ruolo economico e industriale, il forlivese Tito Pasqui compilava una serie di appunti sulla produzione della gomma naturale nella Penisola di Malacca. Note apparentemente tecniche, ma che rivelano uno sguardo sorprendentemente moderno, globale e strategico. Il risultato, cui sarebbero state aggiunte altre osservazioni, ulteriori studi, sarebbe poi diventato un breve saggio pubblicato dal Ministero nel 1920. Sull'argomento, dunque, si dedicò in tarda età (aveva più di settant'anni) e ciò aggiunge un approccio allo studio indefesso e continuativo - per tutta la vita - per Tito Pasqui, curioso di tutto e di ogni ipotesi di miglioramento, di progresso nel vero senso della parola. 

Il cuore del discorso è la Hevea brasiliensis, pianta sudamericana ormai trapiantata con successo nel Sud-Est asiatico. Pasqui ne annota con precisione la classificazione botanica – euforbiacea, come il ricino – dimostrando una solida attenzione scientifica, non scontata per un osservatore italiano dell’epoca. Allo stesso tempo, registra dati climatici dettagliati (temperature medie, piogge annuali, conversioni tra sistemi di misura), segno di un approccio quantitativo e comparativo che guarda ai modelli anglosassoni e coloniali. Colpisce la descrizione concreta delle piantagioni nella giungla malese: terreni strappati alla foresta, alberi da proteggere persino da cervi e camosci ghiotti della corteccia, distanze di impianto calcolate al metro. La gomma emerge così non come materia astratta, ma come risultato di un equilibrio fragile tra natura, lavoro e capitale.

La vera novità, però, è il taglio economico e geopolitico. Pasqui sottolinea come l’Italia, pur richiedendo almeno 6.000 tonnellate annue di gomma per la propria industria, sia penalizzata dall’assenza di una flotta mercantile nei porti malesi e da una mancata intesa bancaria per finanziare esportazioni dirette. È una diagnosi lucida delle debolezze strutturali del Paese, aggravate dal confronto con potenze emergenti: i giapponesi, già allora fortemente presenti con proprie piantagioni in Malesia.

Non manca l’attenzione agli investimenti italiani: società con sede a Milano, iniziative italo-malesi, piantagioni private a Singapore. Pasqui annota superfici, capitali e tempi di ritorno, ricordando che una piantagione resta improduttiva per cinque anni prima della prima incisione degli alberi. Un dettaglio cruciale, che mostra quanto l’impresa coloniale fosse anche una scommessa finanziaria di lungo periodo. Questi appunti, databili tra il 1919 e il 1920, restituiscono l’immagine di un’Italia che osserva il mondo da lontano ma con crescente consapevolezza. Attraverso la gomma, Pasqui racconta un intreccio di scienza, industria e politica economica, anticipando temi – dipendenza dalle materie prime, globalizzazione delle filiere, competizione asiatica – che diventeranno centrali nel secolo successivo. Sono, appunto, appunti: pare anche interessante notare come Pasqui annotasse pensieri ed elementi che poi avrebbe collocato, come mattoncini ordinati, in testi per conferenze, saggi o approfondimenti strutturati. Appunti, ma decisivi e ai quali evidentemente era molto affezionato se non li buttò ma li tenne ben stretti per donarli poi alla Biblioteca della sua Forlì. 

Di seguito, sono riportati trascritti come in originale. E l'originale è conservato presso la Biblioteca "Saffi" di Forlì - Sezioni Fondi Antichi - Fondo Pasqui, così catalogato: Pasqui B19/20. C1038082.

La gomma nella Penisola di Malacca

La Havea brasiliensis è un’Euforbiacea cioè pianta della stessa sostanza del Ricino. 

Classe XXI Monvecia Diclinia unisessuale.

Vedi Targioni Tozzetti 1054 numero 1186.

Acre = 0,4047 Vermoral

Nella Malesia la media temperatura oscilla fra 79 e 82 gradi Fahreneit (43,88 e 45,55 °C) I gradi Inglesi si riducono a centigradi moltiplicandoli per 5/9.

La media precipitazione acquea è da 95 a 100 pollici. Pollice = m.0,025 dunque da 2,41 a 2,54 m.

I terreni si conquistano su la foresta e su la jungla.

I camosci e i cervi sono ghiotti della corteccia della Hevea: perciò conviene proteggere la pianta con fili di ferro.

Le piantagioni si fanno 100 alberi per acre dunque misurando l’acre ettari 0,4047 = 247.

L’Italia ora per la sua industria richiede per lo meno 6000 tonnellate (600.000 quintali) annue di gomma. Questo svantaggio grava sul bilancio economico d’Italia ed è causato dalla mancanza di vapori italiani nei porti della Malesia e dall’assenza d’una intesa bancaria per il finanziamento delle esportazioni dirette. Invece i Giapponesi hanno numerose piantagioni nella Malesia. 

Il capitale investito in una piantagione rimane completamente improduttivo per 5 anni il periodo necessario per fare i lavori iniziali e condurre l’area piantata a maturazione, cioè pronta ad avere gli alberi incisi.

1. Società italiana dell’Estremo Oriente, sede in Milano, superficie Acri 10000

2. Società Italo Malese (Ambrosoli, Stoppani e C.) con piantagioni di circa Acri 3300.

3. Piantagione privata di Cumamoli nell’Isola di Singapore circa 600 Acri.

4. Interessenza del Comm. Gino Pertile in diverse compagnie, calcolata su 4 o 5000 Acri.



Le posate di guerra di Tito Pasqui

Un cucchiaio e una forchetta. Metallo scurito, consunto, piegato dal tempo più che dall’uso. Non c’è eroismo dichiarato in due posate, eppure basta indugiare su di esse per capire quanto possano farsi testimoni. Sono le posate da guerra di Tito Pasqui, oggi probabilmente disperse, forse distrutte, forse dimenticate in qualche anfratto dopo l’alluvione del 2023 che ha travolto il deposito di via Isonzo del Museo del Risorgimento forlivese, trascinando con sé oggetti, inventari, certezze. Il Montone non ha lasciato verbali: da allora nessuno ha più saputo dire se quelle posate esistano ancora, se siano state buttate, recuperate, o se attendano mute in un deposito anonimo, irriconoscibili come tanti frammenti di memoria. L'immagine è tratta da questo sito che cataloga i piccoli beni presso il Museo del Risorgimento di Forlì al n. 157/IV.

Eppure, prima di essere “beni museali”, erano strumenti minimi di sopravvivenza. Cucchiaio e forchetta lunghi 22 centimetri portati in guerra da un volontario garibaldino appena ventenne. Oggetti da tasca o da tascapane, non certo da mensa borghese. È facile immaginare quei due pezzi di metallo passare di mano in mano, sciacquati in fretta in un fosso, battuti contro una gavetta, usati per un pasto scarno consumato all’aperto, tra marce, attese e polvere. Non sono cimeli celebrativi: sono residui concreti di una vita vissuta nel Risorgimento non come idea astratta, ma come esperienza fisica, fatta di fame, freddo, disciplina improvvisata.

Tito Pasqui nasce a Forlì nel 1846, nel cuore di una Romagna attraversata da fermenti repubblicani e mazziniani. Ma qui la biografia può restare sullo sfondo. Ciò che conta è il gesto: a vent’anni si arruola volontario nella terza guerra d’indipendenza del 1866, nell’8º Reggimento del Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi. L’anno dopo è a Mentana, sergente, furiere capo al fianco di Achille Cantoni, in quella battaglia amara che segna uno dei momenti più dolorosi del sogno garibaldino. 

Quelle posate accompagnano questa stagione. Non raccontano strategie né proclami, ma l’intimità della guerra: il bisogno quotidiano di mangiare per continuare. In questo senso sono oggetti profondamente risorgimentali. Il Risorgimento non fu solo congressi, bandiere e statue; fu anche un esercito irregolare che si nutriva come poteva, uomini che portavano con sé pochi effetti personali, spesso per tutta la campagna. Un cucchiaio e una forchetta diventano allora simboli di una militanza concreta, povera, ostinata. Dopo le armi, Pasqui tornerà agli studi, alla scienza agraria, alla politica, fino a diventare deputato e alto funzionario dello Stato unitario. La sua parabola – da volontario repubblicano vicino ad Aurelio Saffi a figura progressivamente più moderata e monarchica – è emblematica di un’intera generazione. Ma proprio per questo le posate contano: appartengono al tempo in cui nulla era ancora definito, quando l’Italia non era un fatto compiuto ma una scommessa rischiosa.

Si attende dunque di scoprire la sorte di queste posate. La loro perdita rappresenterebbe una ferita alla microstoria, a quella trama di oggetti minuti che rendono il passato tangibile. Un documento scritto può essere ricopiato, un discorso può essere citato; un cucchiaio no. Se è perduto, lo è per sempre, e con lui se ne va un frammento silenzioso di esperienza. Resta la fotografia, probabilmente non resta il tenero astuccio-busta con la scritta "Posate mie alla guerra" di pugno di Tito Pasqui, resta la descrizione d’inventario, resta il dubbio. Forse riemergeranno, ripulite dal fango, magari irriconoscibili ma ancora lì. Forse no. In ogni caso, quelle posate continuano a interrogare: su come conserviamo la memoria, su cosa consideriamo davvero “importante”, su quanto i secoli passati vivano ancora non solo nei grandi nomi, ma negli oggetti umili che hanno attraversato la storia insieme agli uomini.

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