Tito Pasqui e la misura della terra

Quando nel 1912 Ghino Valenti presentò alla Reale Accademia dei Lincei la sua relazione Il nuovo ordinamento della statistica agraria in Italia, non stava semplicemente illustrando un insieme di dati. Stava raccontando la nascita di uno strumento nuovo, ambizioso e per molti versi rivoluzionario: il Catasto agrario del Regno d’Italia, pensato per dare finalmente una rappresentazione concreta, scientifica e utile dell’agricoltura nazionale.

Dietro questo progetto corale si muovevano economisti, funzionari, tecnici e studiosi. Tra loro spicca una figura oggi poco ricordata ma centrale per l’Italia agricola dell’epoca: Tito Pasqui, commissario e membro della Commissione consultiva per la statistica agraria, profondamente legato alle vicende della Romagna, una delle regioni in cui la nuova statistica mostrò più chiaramente la sua utilità sociale e politica. Valenti parte da una constatazione netta: la statistica agraria tradizionale, fondata sulle dichiarazioni dirette degli agricoltori, in Italia non funzionava. Il peso della fiscalità e la diffidenza verso lo Stato rendevano impossibile ottenere dati sinceri. Da qui la scelta di un metodo diverso, indiretto e congetturale, ma più realistico: suddividere il territorio per qualità di suolo e coltura, attribuendo produzioni medie sulla base di informazioni tecniche e conoscenza locale.

Non un censimento classico, dunque, ma un vero e proprio catasto agrario, modellato sul catasto geometrico-estimativo. Un’operazione che rinunciava alla perfezione matematica per puntare a ciò che Angelo Messedaglia chiamava una approssimazione sufficiente allo scopo.

La forza del sistema stava in due elementi: l’inquadramento integrale delle superfici, che obbligava a “far tornare i conti” all’interno di ogni comune; la legge dei grandi numeri, che compensava gli errori locali quando si passava dalle frazioni alle province, dalle regioni all’intero Regno. Valenti la definisce, con felice espressione, la vera “provvidenza della statistica”.

È in questo contesto che emerge il ruolo di Tito Pasqui, membro della Commissione consultiva presieduta da Luigi Bodio. Pasqui rappresentava una figura-chiave di raccordo tra amministrazione centrale e mondo agrario, incarnando quell’ideale di competenza tecnica radicata nel territorio che Valenti considerava essenziale. La Commissione non era un organismo formale: era un laboratorio di metodo. Economisti come De Viti De Marco e Pantaleoni, tecnici, ingegneri e studiosi lavoravano insieme per garantire trasparenza, pubblicità dei procedimenti e controllo scientifico dei dati. In questo clima, Pasqui contribuì a consolidare un principio fondamentale: la statistica agraria doveva essere credibile non solo per lo Stato, ma anche per gli agricoltori. Per questo motivo, la raccolta dei dati venne affidata in larga parte alle cattedre ambulanti di agricoltura, istituzioni molto presenti in Romagna e profondamente integrate nel tessuto rurale. Qui il sapere tecnico incontrava quotidianamente i coltivatori, superando sospetti fiscali e diffidenze storiche.

La Romagna occupa un posto speciale nella relazione di Valenti. Non solo come territorio agricolo complesso e produttivo, ma come spazio di forti tensioni sociali. Non è un caso che l’Ufficio di statistica agraria fornisse un contributo diretto alla Commissione d’inchiesta sui conflitti agrari della Romagna. Qui la statistica smette di essere astratta e diventa strumento di comprensione concreta: permette di collegare i conflitti alla struttura delle colture; chiarisce il rapporto tra uso del suolo, lavoro agricolo e redditi; offre una base territoriale per affrontare temi come gli infortuni sul lavoro agricolo e la legislazione sociale. In una regione attraversata da lotte mezzadrili e trasformazioni profonde, la nuova statistica agraria offriva finalmente una mappa affidabile dell’“organismo agrario”, utile tanto ai riformatori quanto all’amministrazione.

Valenti insiste su un punto decisivo: il Catasto agrario non è un’opera chiusa, ma una base viva, continuamente aggiornata dalla rilevazione annuale dei prodotti. Il primo rappresenta l’agricoltura “statica”, la seconda l’agricoltura “in movimento”. I benefici sono trasversali: per il Ministero dell’Agricoltura, che può calibrare le politiche; per la sanità pubblica, che può studiare il rapporto tra colture e malattie; per il Ministero della Guerra, che ottiene una base logistica solida; per la statistica demografica e del lavoro, che trova finalmente un fondamento territoriale certo. E, fatto non secondario, l’Italia riesce così a rispondere alle richieste dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, ponendosi al livello delle grandi potenze europee.

Nelle ultime pagine della relazione, Valenti lascia trapelare una nota di inquietudine: il timore che le vicende politiche e burocratiche possano distruggere in poco tempo ciò che è stato costruito con anni di lavoro rigoroso. È una preoccupazione che rende ancora più prezioso il contributo di figure come Tito Pasqui, capaci di tenere insieme scienza, amministrazione e territorio. Il nuovo ordinamento della statistica agraria non fu solo un esercizio tecnico. Fu, come auspicava Stefano Jacini, un passo decisivo verso una conoscenza reale dell’Italia agricola. E in regioni come la Romagna dimostrò che numeri ben costruiti possono diventare strumenti di giustizia, comprensione e progresso.

Ghino Valenti, Il nuovo ordinamento della statistica agraria in Italia, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Serie Quinta, vol. XXI, Roma, Tipografia della Accademia, 1912.

Tito Pasqui e le macchine americane

Nel cuore dell’Italia post-unitaria, mentre vaste aree agricole restavano segnate da malaria, scarsità di manodopera e terreni difficili, si giocava una partita fondamentale per il futuro dell’agricoltura nazionale. Una partita che vedeva protagoniste le macchine agricole americane… e un nome italiano destinato a emergere con autorevolezza e visione: Tito Pasqui.

La relazione firmata da Charles M. Wood, Deputy Consul General degli Stati Uniti a Roma, datata 31 luglio 1883 e pubblicata per conto del Bureau of Manufactures / Bureau of Foreign Commerce nel 1905 tra le pagine del Monthly Consular and Trade Reports con titolo American Agricultural Machinery in Italy restituisce un capitolo poco noto, ma decisivo, della modernizzazione agricola in Italia. Un documento prezioso che, a distanza di oltre un secolo, restituisce il ritratto di Tito Pasqui come ponte tra scienza agraria italiana e innovazione internazionale, protagonista silenzioso ma decisivo di una svolta epocale.

Il 26 giugno 1883, a Grosseto, si sarebbe tenuto un evento senza precedenti: un’Esposizione Internazionale di mietitrici e legatrici, seguita da prove pratiche in campo, organizzata sotto l’egida del Governo italiano. Le dimostrazioni avvennero nelle grandi tenute dei signori Ricasoli, Ponticelli e Luciani, su terreni tutt’altro che facili. L’obiettivo era ambizioso e strategico: individuare soluzioni meccaniche capaci di rendere produttive zone difficili come le piane costiere toscane e la Campagna Romana, riducendo al minimo l’impiego di manodopera.

Accanto a macchine tedesche, austriache, francesi, inglesi e belghe, comparvero tre nomi che suscitarono curiosità e aspettative: Walter A. Wood, Warder, Bushnell & Glessner e McCormick. Tutte presentarono mietitrici e legatrici a spago, poiché le legatrici a filo non erano ammesse. Le condizioni del terreno – argilloso, vischioso, a tratti alluvionale – misero in seria difficoltà molte macchine europee: ruote che sprofondavano, meccanismi che cedevano, avanzamenti incerti. Al contrario, le macchine americane lavorarono con sorprendente regolarità, “prendendo il terreno così come veniva”, superando ostacoli e confermando la reputazione dei loro costruttori.

Tra i membri della commissione giudicatrice figurava Tito Pasqui, allora sovrintendente governativo all’agricoltura. Accanto a lui, personalità di primo piano come Antonio Pacinati (presidente della giuria) e Vincenzo Testini. Pasqui non fu un semplice spettatore: partecipò a un’analisi minuziosa delle macchine, valutandone l’usura per attrito, la qualità dei materiali, il peso complessivo e la facilità di trazione. Il giudizio non si limitava alla prestazione immediata, ma mirava a comprendere la sostenibilità nel tempo di quelle innovazioni.

Il risultato fu netto: Primo premio assoluto alla McCormick, con 1.000 lire, medaglia d’oro, diploma d’onore e l’acquisto di due macchine da parte dello Stato. Secondo premio alla Warder, Bushnell & Glessner, con 500 lire e medaglia d’argento.

Le prove non si fermarono a Grosseto. Il 6 luglio e poi il 14 luglio 1883, nuove dimostrazioni si svolsero nei dintorni di Roma e a Ciampino, su terreni di origine vulcanica, ricchi di tufo, pietre e lapilli. Ancora una volta, le macchine americane – in particolare la McCormick – si dimostrarono superiori.

È qui che emerge il tratto forse più interessante per chi oggi si occupa di storia agricola. In conversazioni private con il viceconsole statunitense Charles M. Wood, Tito Pasqui espresse ripetutamente la propria ammirazione per la meccanica agricola americana, auspicando una presenza sempre più ampia di queste macchine nelle esposizioni italiane future. Parole che rivelano una mentalità aperta, internazionale, profondamente moderna: Pasqui sapeva che  l’Italia poteva e doveva imparare da chi era più avanti sul piano tecnico.

Va infine sottolineato (come fa lo stesso rapporto consolare) il ruolo attivo dello Stato italiano: trasporto gratuito delle macchine, cavalli da tiro forniti, spese di prova interamente a carico della Commissione agricola governativa. Un investimento pubblico consapevole, mirato a diffondere il progresso.


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