Dietro questo progetto corale si muovevano economisti, funzionari, tecnici e studiosi. Tra loro spicca una figura oggi poco ricordata ma centrale per l’Italia agricola dell’epoca: Tito Pasqui, commissario e membro della Commissione consultiva per la statistica agraria, profondamente legato alle vicende della Romagna, una delle regioni in cui la nuova statistica mostrò più chiaramente la sua utilità sociale e politica. Valenti parte da una constatazione netta: la statistica agraria tradizionale, fondata sulle dichiarazioni dirette degli agricoltori, in Italia non funzionava. Il peso della fiscalità e la diffidenza verso lo Stato rendevano impossibile ottenere dati sinceri. Da qui la scelta di un metodo diverso, indiretto e congetturale, ma più realistico: suddividere il territorio per qualità di suolo e coltura, attribuendo produzioni medie sulla base di informazioni tecniche e conoscenza locale.
Non un censimento classico, dunque, ma un vero e proprio catasto agrario, modellato sul catasto geometrico-estimativo. Un’operazione che rinunciava alla perfezione matematica per puntare a ciò che Angelo Messedaglia chiamava una approssimazione sufficiente allo scopo.
La forza del sistema stava in due elementi: l’inquadramento integrale delle superfici, che obbligava a “far tornare i conti” all’interno di ogni comune; la legge dei grandi numeri, che compensava gli errori locali quando si passava dalle frazioni alle province, dalle regioni all’intero Regno. Valenti la definisce, con felice espressione, la vera “provvidenza della statistica”.
È in questo contesto che emerge il ruolo di Tito Pasqui, membro della Commissione consultiva presieduta da Luigi Bodio. Pasqui rappresentava una figura-chiave di raccordo tra amministrazione centrale e mondo agrario, incarnando quell’ideale di competenza tecnica radicata nel territorio che Valenti considerava essenziale. La Commissione non era un organismo formale: era un laboratorio di metodo. Economisti come De Viti De Marco e Pantaleoni, tecnici, ingegneri e studiosi lavoravano insieme per garantire trasparenza, pubblicità dei procedimenti e controllo scientifico dei dati. In questo clima, Pasqui contribuì a consolidare un principio fondamentale: la statistica agraria doveva essere credibile non solo per lo Stato, ma anche per gli agricoltori. Per questo motivo, la raccolta dei dati venne affidata in larga parte alle cattedre ambulanti di agricoltura, istituzioni molto presenti in Romagna e profondamente integrate nel tessuto rurale. Qui il sapere tecnico incontrava quotidianamente i coltivatori, superando sospetti fiscali e diffidenze storiche.
La Romagna occupa un posto speciale nella relazione di Valenti. Non solo come territorio agricolo complesso e produttivo, ma come spazio di forti tensioni sociali. Non è un caso che l’Ufficio di statistica agraria fornisse un contributo diretto alla Commissione d’inchiesta sui conflitti agrari della Romagna. Qui la statistica smette di essere astratta e diventa strumento di comprensione concreta: permette di collegare i conflitti alla struttura delle colture; chiarisce il rapporto tra uso del suolo, lavoro agricolo e redditi; offre una base territoriale per affrontare temi come gli infortuni sul lavoro agricolo e la legislazione sociale. In una regione attraversata da lotte mezzadrili e trasformazioni profonde, la nuova statistica agraria offriva finalmente una mappa affidabile dell’“organismo agrario”, utile tanto ai riformatori quanto all’amministrazione.
Valenti insiste su un punto decisivo: il Catasto agrario non è un’opera chiusa, ma una base viva, continuamente aggiornata dalla rilevazione annuale dei prodotti. Il primo rappresenta l’agricoltura “statica”, la seconda l’agricoltura “in movimento”. I benefici sono trasversali: per il Ministero dell’Agricoltura, che può calibrare le politiche; per la sanità pubblica, che può studiare il rapporto tra colture e malattie; per il Ministero della Guerra, che ottiene una base logistica solida; per la statistica demografica e del lavoro, che trova finalmente un fondamento territoriale certo. E, fatto non secondario, l’Italia riesce così a rispondere alle richieste dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, ponendosi al livello delle grandi potenze europee.
Nelle ultime pagine della relazione, Valenti lascia trapelare una nota di inquietudine: il timore che le vicende politiche e burocratiche possano distruggere in poco tempo ciò che è stato costruito con anni di lavoro rigoroso. È una preoccupazione che rende ancora più prezioso il contributo di figure come Tito Pasqui, capaci di tenere insieme scienza, amministrazione e territorio. Il nuovo ordinamento della statistica agraria non fu solo un esercizio tecnico. Fu, come auspicava Stefano Jacini, un passo decisivo verso una conoscenza reale dell’Italia agricola. E in regioni come la Romagna dimostrò che numeri ben costruiti possono diventare strumenti di giustizia, comprensione e progresso.
Ghino Valenti, Il nuovo ordinamento della statistica agraria in Italia, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Serie Quinta, vol. XXI, Roma, Tipografia della Accademia, 1912.

