Tito Pasqui e il respiro del moderno

Quando Tito Pasqui nacque a Forlì, nel 1846, la Romagna era ancora una terra scandita dal ritmo antico dei campi, dalle stagioni e dalla fatica contadina. Ma già allora, sotto quella superficie immutabile, qualcosa stava cambiando. Fu forse questo mutamento silenzioso a catturare fin da giovane l’attenzione di Pasqui, uomo di energia instancabile e curiosità irrequieta, incapace di accettare il mondo così com’era senza interrogarsi su come potesse diventare migliore.

La sua passione per l’agronomia non fu mai semplice interesse tecnico. Per Pasqui la terra era un organismo vivo, da comprendere, migliorare, rispettare attraverso il sapere. E il sapere, per lui, aveva un luogo preciso: la Biblioteca Comunale di Forlì, che frequentava con assiduità quasi rituale. Tra quelle mura trascorreva intere giornate, studiando trattati italiani e stranieri, consultando riviste specialistiche, prendendo appunti, scrivendo, correggendo. La biblioteca non era solo un archivio di libri, ma una finestra aperta sul mondo moderno. Fu lì che maturò una decisione destinata a lasciare un segno duraturo: donare alla città tutto il materiale raccolto nel corso della sua vita. Nacque così il Fondo Tito Pasqui, oggi conservato presso la Biblioteca “Aurelio Saffi”, una raccolta imponente di 57 faldoni che restituisce, come pochi altri archivi personali, il ritratto intellettuale e umano di un uomo del suo tempo.

Sfogliando quei documenti si entra nello studio di Pasqui. Manoscritti, memorie di viaggio, lettere, relazioni sulle Esposizioni, libri acquistati durante i suoi spostamenti, articoli di giornale che parlano di lui e che egli stesso conservava con cura. Tutto è ordinato, classificato, annotato. Il metodo di lavoro è rigoroso, quasi ossessivo, soprattutto nei taccuini di viaggio, dove ogni osservazione diventa materia di studio: una nuova macchina agricola vista a un’esposizione, una tecnica colturale sperimentata altrove, un dettaglio architettonico o organizzativo degno di nota. Accanto ai testi più “alti” convivono oggetti umili ma eloquenti: biglietti da visita, telegrammi, cartoline postali, ricevute di alberghi, planimetrie di esposizioni, persino carte menù. Sono tracce di una vita in movimento, di un uomo che viaggia per capire, confrontare, imparare. Ogni spostamento è un’occasione per osservare il moderno in azione.

Le Esposizioni di fine Ottocento e dei primi del Novecento rappresentano per Pasqui una rivelazione. In quei grandi spazi dedicati all’innovazione, tra macchine a vapore, strumenti agrari, invenzioni meccaniche e modelli di progresso industriale, egli riconosce il futuro. Ma non un futuro astratto: un futuro da adattare alla realtà romagnola, alla sua terra, ai suoi vigneti e ai suoi campi. 

Il moderno, per Pasqui, non è mai rottura violenta con la tradizione. È piuttosto dialogo, integrazione, miglioramento. Questo atteggiamento emerge chiaramente anche nella sua attività politica, documentata da un ricco carteggio. Inserito nella compagine liberale locale, Pasqui vede nella politica uno strumento per favorire il progresso agricolo e civile. Le lettere testimoniano rapporti con numerosi protagonisti del tempo, tra cui Alessandro Fortis, con il quale intrattiene uno scambio di idee libero e intenso. Eppure, nonostante i viaggi, i contatti, le aperture internazionali, Pasqui rimane profondamente legato alla sua Forlì e alla Romagna. Ovunque vada, il pensiero torna sempre lì: a come introdurre nuove tecniche, a come incentivare la produzione, a come migliorare le condizioni di chi lavora la terra. Nei suoi scritti ritorna costante l’idea che il progresso agricolo sia la chiave per la crescita economica e morale di un’intera comunità. Negli ultimi anni della sua vita, Pasqui assiste ai primi risultati concreti di quell’impegno lungo e paziente. I primi vent’anni del Novecento segnano per la Romagna un periodo di notevole progresso agrario, di cui egli è stato uno degli artefici più lucidi e instancabili. Alla sua morte, nel 1925, la città lo ricorda con manifesti commemorativi, segno di un riconoscimento che va oltre il singolo uomo.

Oggi, rileggendo le sue carte, Tito Pasqui appare come una figura di confine: radicata nella terra romagnola ma con lo sguardo rivolto al futuro; fedele alla tradizione ma affascinata dal moderno; uomo di studio e d’azione insieme. Un testimone consapevole di un’epoca di trasformazioni, che seppe ascoltare il rumore delle macchine senza dimenticare il silenzio dei campi.

Tito Pasqui e l'istruzione agraria

Nel volume a cura di Anna Pia Bidolli e Simonetta Soldani, Fonti per la storia della scuola, vol. VI, L’istruzione agraria (1861-1928), pubblicato dal Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, a Roma nel 2001, Tito Pasqui emerge come una figura tutt’altro che marginale. Non è tratteggiato quale un semplice funzionario tra molti, ma uno dei perni strutturali su cui si regge, per almeno trent’anni, l’organizzazione concreta dell’istruzione agraria italiana. La sua presenza nel testo è discreta ma costante, e proprio per questo significativa: Pasqui non incarna l’eccezione, bensì il modello operativo attraverso cui lo Stato unitario tenta di dare forma, stabilità e credibilità a un settore educativo complesso, periferico e politicamente sensibile.

Il suo ingresso nella scena avviene in un momento cruciale. All’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando l’istruzione agraria è ancora un sistema fragile, disomogeneo e spesso affidato a iniziative locali incerte, il Ministero di Agricoltura istituisce un vero e proprio corpo ispettivo. È il 1° febbraio 1880 quando Pasqui viene nominato ispettore: una carica che, come il testo chiarisce, non ha nulla di meramente notarile. L’ispettore agrario è chiamato a viaggiare, osservare, correggere, mediare; a dirimere conflitti tra direttori e amministrazioni locali; a presiedere esami; a intervenire nelle crisi finanziarie e disciplinari degli istituti; e, soprattutto, a fungere da ponte stabile tra il centro ministeriale e le realtà periferiche. In un sistema scolastico che non dipende dal Ministero della Pubblica Istruzione ma da quello “economico”, questa funzione di raccordo è vitale.

Fin dall’inizio Pasqui si distingue come uno degli ispettori del cosiddetto “periodo fondativo”. Il volume sottolinea come a lui – insieme con Ricca Rosellini – non sia affidato solo il controllo dell’esistente, ma anche un compito più sottile e politicamente delicato: favorire la nascita di nuove scuole agrarie, soprattutto nelle aree dove resistenze, inerzie o rivalità locali rischiano di bloccare ogni iniziativa. In questi casi l’ispettore non si limita a valutare progetti: raccoglie informazioni sul contesto, misura le ambizioni dei notabili, sostiene deputati e prefetti, contribuisce a “normalizzare” iniziative troppo fragili o troppo velleitarie. Pasqui appare così come un vero imprenditore istituzionale, capace di tradurre un indirizzo politico generale in soluzioni praticabili sul territorio.

Il testo offre poi diversi esempi concreti della sua azione sul campo, che restituiscono un ritratto vivido del suo stile. A Cesena, nel 1882, gli viene affidata un’inchiesta delicata sulla condotta del direttore della scuola pratica. Pasqui procede con un’indagine minuziosa, raccogliendo testimonianze e valutando il clima interno, e giunge a una conclusione equilibrata: riconosce irregolarità e leggerezze, ma esclude intenti fraudolenti e propone una semplice ammonizione, sufficiente – a suo giudizio – a rimettere l’istituto in carreggiata senza comprometterne la stabilità. È un approccio rivelatore: l’obiettivo non è punire, ma salvare la funzione educativa della scuola, evitando che un provvedimento troppo severo produca danni irreversibili in un sistema ancora giovane.

A Conegliano, nello stesso anno, Pasqui affronta un problema diverso ma altrettanto tipico dell’istruzione agraria: l’eccesso di spesa e di personale tecnico rispetto alle reali possibilità finanziarie. Qui il confronto con le autorità locali è acceso, ma Pasqui lo governa con un’arma precisa: i numeri. Analizzando il bilancio, dimostra come alcune voci siano gonfiate e come il “lusso” di assistenti e figure tecniche ecceda i bisogni effettivi dell’istituto. Non lo fa per mortificare l’iniziativa locale, ma per ricondurla entro un quadro sostenibile, difendendo implicitamente l’idea stessa di scuola agraria come investimento pubblico serio e non come progetto affidato all’entusiasmo del momento.

Questi episodi mostrano bene perché Pasqui diventi, nel tempo, una figura di riferimento. In un passaggio significativo, il volume segnala come le sue relazioni ispettive vengano difese per la loro chiarezza e completezza, in contrasto con altri rapporti giudicati confusi o parziali. Le sue ispezioni sono considerate attendibili proprio perché tengono insieme rigore amministrativo e conoscenza diretta delle persone e dei contesti. Anche questo è un aspetto essenziale del suo ruolo: Pasqui contribuisce a costruire la credibilità tecnica e morale dell’amministrazione agraria.

Un passaggio notevole è quello in cui un documento discute le critiche del Consiglio di Stato a un rapporto ispettivo (definito “disordinato e confuso”) e replica che il rapporto di Pasqui non è né disordinato né parziale: contiene deposizioni, elenco accuse, esito delle indagini; esclude malversazioni ma riconosce irregolarità non disoneste e persino “relazioni amorose” imputate al direttore. Questo è importante perché mostra che Pasqui non è solo “attore” ma anche metro di qualità: il suo modo di ispezionare e scrivere relazioni diventa oggetto di valutazione e difesa. In un settore in cui la credibilità amministrativa è decisiva per ottenere fondi e legittimazione, la solidità dei rapporti ispettivi è parte del successo dell’istruzione agraria.

La traiettoria della sua carriera conferma questa centralità. A differenza di altri ispettori, Pasqui non resta confinato in una funzione laterale, ma assume progressivamente incarichi direttivi, fino a raggiungere, nel 1909, il vertice della Direzione generale. Il volume documenta come la sua uscita di scena, nel 1911, venga accompagnata da un riconoscimento ufficiale dei “lunghi ed onorevoli servizi” prestati allo Stato. È un passaggio simbolico ma eloquente: l’uomo che aveva iniziato come assistente e docente di discipline agrarie e tecniche diventa il punto di riferimento dell’intero apparato amministrativo del settore. Nel complesso, Tito Pasqui rappresenta una figura chiave per comprendere che cosa sia stata davvero l’istruzione agraria nell’Italia postunitaria: non solo un insieme di scuole e programmi, ma un campo di mediazione continua tra sapere scientifico, amministrazione pubblica e realtà locali. La sua opera mostra come la modernizzazione agricola passi anche – e forse soprattutto – attraverso funzionari capaci di coniugare competenza tecnica, sensibilità istituzionale e pragmatismo politico. In questo senso, Pasqui non è soltanto un protagonista della storia dell’istruzione agraria: ne è uno dei principali architetti silenziosi, come emerge con chiarezza dal volume da cui questo ritratto è tratto

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