Tito Pasqui e le biblioteche popolari ambulanti

Nel quadro delle politiche riformatrici dell’età giolittiana, la figura di Tito Pasqui emerge come esempio significativo di funzionario-intellettuale capace di tradurre in atti concreti l’idea di uno Stato promotore dell’istruzione e della coesione sociale. Non fu un pedagogista in senso stretto né un riformatore scolastico “di professione”, ma incarnò una tipologia di intellettuale-funzionario che ebbe un ruolo decisivo nella traduzione delle istanze educative in strumenti amministrativi concreti, soprattutto a favore delle classi lavoratrici. Il suo coinvolgimento nel decreto del 1903 sulle Biblioteche popolari ambulanti non fu episodico, ma si inserì in una più ampia visione della cultura come infrastruttura civile, indispensabile alla modernizzazione del Paese.

Le Biblioteche popolari ambulanti, istituite formalmente con il Regio decreto del 2 agosto 1902 e attuate con il provvedimento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 agosto 1903, rispondevano a una necessità strutturale dell’Italia post-unitaria: raggiungere le fasce della popolazione escluse dai circuiti scolastici e culturali tradizionali. Lo Stato giolittiano, pur evitando interventi autoritari diretti, individuava nella diffusione del libro uno strumento di progresso economico, disciplinamento sociale e formazione della cittadinanza. In questo senso, il decreto del 1903 va letto non come semplice atto amministrativo, ma come parte integrante di una strategia educativa nazionale. Il testo del decreto chiarisce con precisione l’impostazione statale: l’educazione delle classi lavoratrici doveva essere promossa attraverso una selezione attenta e controllata dei contenuti. La creazione di una Commissione incaricata di redigere un catalogo ufficiale dei libri ammessi rappresenta un passaggio cruciale. Nessun volume poteva entrare nelle Biblioteche ambulanti se non approvato dal Ministero, e l’elenco doveva essere revisionato annualmente sulla base dell’esperienza concreta. Questo meccanismo riflette una concezione tipicamente giolittiana dell’intervento pubblico: graduale, sperimentale, fondato sull’osservazione dei risultati, ma fermamente orientato dall’alto.

Pasqui si formò e operò principalmente nell’ambito dell’amministrazione agraria, arrivando alla carica di ispettore generale dell’agricoltura. In questa veste maturò una convinzione centrale: la modernizzazione del Paese non poteva fondarsi esclusivamente su riforme economiche o infrastrutturali, ma doveva poggiare su un innalzamento diffuso del livello culturale e tecnico delle popolazioni rurali e operaie. Nel contesto di un’Italia ancora largamente agricola, l’educazione non veniva da lui concepita come astratta alfabetizzazione, bensì come formazione integrale dell’individuo, capace di incidere sulle pratiche quotidiane del lavoro, sulla gestione delle risorse e sulla partecipazione alla vita civile.

Il decreto del 1903 sulle Biblioteche popolari ambulanti, in cui Pasqui compare come membro della Commissione incaricata di redigere il catalogo dei libri, rappresenta un momento emblematico del suo impegno educativo. In esso si coglie chiaramente una visione moderna dell’istruzione: non limitata alla scuola, ma estesa a spazi informali, flessibili, adattabili alle esigenze dei territori. La scelta di affidare a una Commissione di alto profilo la selezione dei testi non fu casuale. Pasqui sostenne implicitamente l’idea che il libro dovesse essere uno strumento di emancipazione sociale, di educazione morale e civica, di trasmissione di competenze pratiche (agricole, tecniche, igieniche). In questo senso, la sua presenza garantiva che la cultura proposta non fosse solo letteraria o edificante, ma anche funzionale allo sviluppo economico e sociale, soprattutto nelle campagne.

Le politiche educative dell’epoca portavano con sé una forte componente di indirizzo dall’alto. Pasqui ne fu interprete consapevole: credeva nella necessità di orientare la lettura delle classi popolari, evitando testi ritenuti inutili o potenzialmente destabilizzanti, ma senza per questo ridurre l’offerta culturale a un semplice strumento di controllo. Il catalogo delle Biblioteche ambulanti, destinato a essere rivisto annualmente, rifletteva una concezione dinamica e sperimentale dell’educazione, in cui l’esperienza concreta sul territorio avrebbe dovuto suggerire correzioni e ampliamenti. Pasqui sostenne questa impostazione come garanzia di equilibrio tra autorità statale e bisogni reali dei lettori.

Uno degli aspetti più rilevanti del pensiero educativo di Pasqui è la connessione tra istruzione tecnica e formazione civica. Per lui, insegnare a leggere non bastava: occorreva fornire strumenti per comprendere il funzionamento dello Stato, il valore del lavoro, il rispetto delle regole e il senso di appartenenza alla comunità nazionale. In ciò si inserisce la sua azione in una più ampia strategia dello Stato liberale, che vedeva nell’educazione popolare un mezzo per ridurre le fratture sociali, prevenire conflitti, integrare le masse nella vita dello Stato unitario. 

È in questo snodo che la presenza di Tito Pasqui assume un significato particolare. In qualità di ispettore generale dell’agricoltura, Pasqui portava nella Commissione una profonda conoscenza delle realtà rurali, delle condizioni di vita dei lavoratori agricoli e dei limiti strutturali dell’istruzione tradizionale. La sua partecipazione garantiva che il catalogo non fosse composto esclusivamente da testi letterari o morali, ma includesse opere di carattere pratico, divulgativo e tecnico, capaci di incidere direttamente sulle competenze professionali, sull’igiene, sull’organizzazione del lavoro e sulla gestione delle risorse.

Il decreto stabiliva inoltre che le prime Biblioteche dovessero essere istituite nel Lazio, nel Mezzogiorno e nelle Isole. Questa scelta territoriale non era neutra: rifletteva la consapevolezza delle profonde disuguaglianze interne al Paese e l’intento di utilizzare la cultura come strumento di riequilibrio. Pasqui, da sempre attento alla dimensione agricola e periferica dello sviluppo nazionale, si trovava perfettamente allineato a questa priorità politica. Il confronto con Giovanni Montemartini, anch’egli membro della Commissione, aiuta a comprendere la pluralità di funzioni attribuite al decreto. Montemartini rappresentava la componente economico-istituzionale del riformismo giolittiano: per lui, l’istruzione popolare era parte integrante di una più ampia politica dei servizi pubblici e dell’intervento statale nell’economia. Le Biblioteche ambulanti si configuravano come un servizio essenziale, analogo – sul piano culturale – alle infrastrutture materiali, necessario per la crescita di una società industriale moderna. Accanto a queste due figure, il ruolo di Desiderio Chilovi introduceva una terza dimensione, quella scientifica e metodologica. Chilovi garantiva il rigore biblioteconomico del progetto, l’attenzione alla qualità delle edizioni, alla classificazione e alla funzione educativa del libro come strumento di formazione critica. Il decreto del 1903, con la previsione di un catalogo ufficiale e di revisioni periodiche, riflette chiaramente la sua influenza.

Pasqui si colloca tra queste due polarità: da un lato la visione sistemica di Montemartini, dall’altro l’approccio tecnico-scientifico di Chilovi. Il suo contributo consiste nel mantenere il progetto ancorato alla realtà sociale concreta, evitando che le Biblioteche popolari ambulanti si trasformassero in un’istituzione distante dai bisogni reali dei destinatari. In questo senso, il decreto diventa uno strumento di mediazione tra sapere, amministrazione e territorio. L’articolazione del provvedimento – dalla fase sperimentale alla regolamentazione definitiva, dalla selezione dei libri alla loro diffusione geografica – rivela una concezione dell’educazione come processo continuo, adattabile e verificabile. È una concezione che rispecchia pienamente la cultura politica giolittiana e che trova in Tito Pasqui uno dei suoi interpreti più concreti e meno celebrati.

Rileggere oggi il decreto sulle Biblioteche popolari ambulanti attraverso la figura di Pasqui consente di cogliere come le politiche educative dell’inizio del Novecento non fossero marginali, ma costitutive del progetto di modernizzazione dello Stato. Pasqui contribuì a fare dell’istruzione popolare non un ideale astratto, ma un dispositivo operativo, capace di raggiungere le periferie sociali e geografiche del Paese. In questo risiede la sua importanza storica: nell’aver trasformato il libro in un mezzo di cittadinanza, lavoro e progresso, perfettamente coerente con lo spirito dell’età giolittiana.

L'aratro e la spada: la lezione civile di Tito Pasqui

«La spada, il moschetto, il cannone, accrescono il territorio di una Nazione e ne cacciano gli invasori; ma con quelle rie bocche di spavento e di morte si ammontano cadaveri, si spargono lacrime, lutti, fame e sangue, e si seminano i germi di guerre future. Con l’aratro invece si conquistano immense miniere di grano, di carne, di tessuti, di olio, di vino, non ancora sfruttate, e, coi lavori profondi del suolo, si conquistano inesplorate e spesso feraci regioni, aumentando in profondità il territorio produttivo della Nazione.»

(Tito Pasqui, Relazione sulle Macchine e strumenti al Concorso Regionale in Reggio Emilia del 1876, Roma, Eredi Botta, 1877).

Quando Tito Pasqui contrappone «la spada, il moschetto, il cannone» all’aratro, non compie un semplice esercizio retorico. Le sue parole, pronunciate in un contesto tecnico – una relazione sulle macchine agricole – assumono il tono di un giudizio storico e morale: esistono due modi di conquistare il territorio, uno violento e distruttivo, l’altro produttivo e pacificatore.

Tito Pasqui non parla per astrazione. Egli è figlio di Gaetano Pasqui, pioniere della meccanica agraria italiana, inventore e perfezionatore di aratri polivomeri e di numerosi strumenti per la lavorazione profonda del suolo. Ma mentre il padre incarna soprattutto l’opera dell’inventore e dell’imprenditore, Tito è la voce che interpreta e universalizza quel lavoro, elevandolo a principio di civiltà. Nella sua riflessione, le armi “accrescono” il territorio solo in apparenza. Esse allargano i confini, ma lo fanno riempiendo la terra di cadaveri e seminando «i germi di guerre future». È un’accusa netta, priva di ambiguità: la conquista militare è sterile, perché genera altra violenza. L’aratro, al contrario, non sottrae ma moltiplica. Con esso si conquistano «immense miniere di grano, di carne, di tessuti, di olio, di vino»: una ricchezza che non nasce dalla distruzione, ma dalla trasformazione intelligente della natura.

Qui il pensiero di Tito Pasqui si avvicina sorprendentemente alla tradizione biblica. Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «le spade saranno trasformate in aratri» (Is 2,4): non solo la fine della guerra, ma l’inizio di un ordine nuovo fondato sul lavoro della terra. Tito traduce questa visione in linguaggio moderno, tecnico, nazionale: la vera espansione di una nazione è quella che avviene “in profondità”, quando il suolo viene lavorato, bonificato, reso fertile. Gli aratri Pasqui, in particolare il polivomero, diventano così simboli concreti di questa filosofia. Ogni vomere che incide il terreno non apre una ferita, ma un solco fecondo; ogni lavorazione profonda non distrugge, ma rivela potenzialità nascoste. Dove il cannone lascia rovine, l’aratro lascia campi; dove la guerra produce fame, l’agricoltura produce pane. È significativo che questa visione venga formulata da un ingegnere. Tito Pasqui dimostra che la tecnica non è neutra: può servire la morte o la vita. La meccanizzazione agricola, se orientata al bene comune, diventa strumento di pace duratura, perché rende una nazione meno dipendente dalla conquista e più sicura nella propria autosufficienza.

In definitiva, Tito Pasqui non celebra semplicemente l’aratro contro la spada: egli propone un criterio di grandezza nazionale. Grande non è il popolo che domina con le armi, ma quello che sa nutrire se stesso e gli altri. In questa lezione, nata dal solco tracciato dal padre Gaetano ma elevata a parola pubblica dal figlio, l’agricoltura diventa atto morale, e il lavoro della terra una forma alta di politica e di pace.

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